Uscirà, a breve, per la piccola casa editrice libertaria Magmata di Napoli, la seconda edizione del libro Full Time Blues. Un diario cronaca degli anni Settanta, in cui Antonio Festival prova a raccontare “i ’70 libertari, quelli delle opportunità/possibilità, quelli che non intendevano sostituire poteri ma negarli in assoluto”, ma anche l’inizio di quegli anni Ottanta che videro, in Italia come negli USA, il dilagare dell’eroina e lo sfaldarsi dei movimenti. Accanto alla scheda informativa, che discute dati emersi recentemente sui retroscena di questa vicenda, proponiamo, in anteprima, col benestare degli autori e dell’editore, che ringraziamo, alcuni passi dall’introduzione al volume, curata da Marco Celentano.
Autobiografia di una generazione
Questo racconto descrive la vita di un giovane libertario, tra gli anni Settanta e Ottanta, tentando, come l’autore stesso suggerisce, (…) di restituire, attraverso la cifra autobiografica, un affresco delle “tante azioni/relazioni dirette che trasformarono man mano gli animi ed i rapporti sociali/personali di molti di noi”. La storia si spinge, poi, oltre il decennio 1968-1978 che vide la nascita, crescita e crisi del più grande movimento europeo di contestazione del secondo Novecento, fino al declino di quell’esperienza (…).
Quattro punti dirimenti
L’intreccio non è senza frutto. Almeno quattro grandi questioni, di cui il movimento degli anni Settanta, nonostante le accese e interminabili discussioni, non seppe venire a capo, sono utilmente messe a fuoco in queste pagine. Si tratta di problemi la cui insufficiente comprensione, e mancata soluzione, contribuirono, a mio avviso, allo sfaldamento del movimento stesso. Il primo riguardava il contegno da tenere nello scontro, in parte inevitabile, con i militanti fascisti. Il secondo concerneva la critica delle gerarchie rosse, della forma partito, della rivoluzione intesa come “presa del palazzo”. Strettamente connessi a quest’ultima, si diramavano altri due corni del dibattito: la questione della felicità e della liberazione del singolo, e la critica del passaggio alla lotta armata, quale si dette in Italia negli anni settanta.
La prima questione compare già nelle fasi iniziali del racconto; il protagonista inizia, giovanissimo, a farci i conti. Quella di incorrere nella violenza dei fascisti era, allora, per chiunque partecipasse alle attività dei movimenti, o anche solo ne avesse assunto l’estetica, una eventualità concreta, quotidiana, che a volte era necessario fronteggiare e rintuzzare, se non volevi semplicemente subirla. Gli episodi che l’autore riporta illustrano perfettamente questo clima: un quadro sociale teso, che induce a comportamenti speculari e contrapposti, la “caccia al rosso” – la “caccia al nero”, la militarizzazione della lotta, la violenza fisica come elemento programmatico e insieme valvola di sfogo delle frustrazioni individuali che sfociava, in qualche caso, tristemente, anche a sinistra, in accanimento sull’inerme: “A Roma l’ennesimo compagno è stato ammazzato dai fascisti. Come in uso, si scatena la caccia al camerata (…) due tizi; gente dei gruppi, (…) vogliono dare una lezione a qualche fascio, così per pareggiare un po’ i conti (…). A noi invece, la cosa non va per niente giù, non ci piace ripagare il nemico con la stessa moneta; ci sentiamo diversi, su un altro pianeta. Gli agguati, i pestaggi, non fanno per noi”.
Il protagonista e gli altri del Gruppo Anarchico Louise Michel, sorto a Napoli nel 1975, maturano, precocemente e controcorrente, in merito a questi temi, una riflessione sulle forme di interiorizzazione e riproduzione del potere, e dei suoi meccanismi, che si vanno manifestando nel movimento. L’attiva opposizione alla loro diffusione li porta a praticare, pienamente e generosamente, la solidarietà antifascista, ovunque sia necessario, ma anche a rifiutare la pratica antica di disumanizzare l’avversario per potersi liberare di ogni inibizione a colpirlo. Nello specifico: considerare il ventenne (o giù di lì) “fascista” che si ha di fronte come un essere irrimediabilmente e definitivamente volto al male, al punto che eliminarlo è cosa buona e giusta. “Il nostro [contesto anarchico] approccio all’antifascismo militante è ben diverso da quello in uso nel movimento. Lo slogan uccidere un fascista non è reato, adottato da una buona parte delle formazioni in campo, non ci attizza per niente”: ci si rendeva conto che andare a caccia di fascisti da pestare, o peggio, avrebbe reso i cacciatori del tutto simili ai cacciati. Ma anche che la maggior parte di quelli che, scalmanandosi, gridavano questi slogan era in fondo ben lontana dal desiderare realmente di compiere omicidi, o altre brutalità del genere; desiderava invece solo poter vivere in modo più libero, meno condizionato, in una società che non avesse come suo fondamento, appunto, la sopraffazione del forte sul più debole. D’altra parte, non era questo il solo modo in cui l’autoritarismo, combattuto a parole e nelle intenzioni, si infiltrava nelle pratiche del movimento, neutralizzandone le spinte più profondamente rivoluzionarie.
Anche dei lacci stringenti della forma partito, del fiato sul collo delle gerarchie rosse, A. fa presto esperienza: nel suo quartiere, la punta più avanzata del dissenso verso la sinistra istituzionale sembra costituita da un gruppo M.-L. di quelli più restii a farsi risucchiare nell’agone parlamentare. Il protagonista ha circa 16 anni quando, con un amico, si avvicina a questa formazione: “Tra i tanti leader, messia e capetti vari (…) sembra che abbiamo beccato i più austeri, seriosi e pesantoni”, quelli che si considerano “i più puri tra tutti, i più fedeli alla linea”. Lui, l’amico, e la loro cerchia, saranno presto messi all’indice. L’esperienza lascerà emergere, al di là delle meschinità e contraddizioni personali di questo piccolo ceto dirigente extraparlamentare (“Il maschilismo, anche se modificato e riveduto, tra i profeti della rivoluzione sembra che sia ancora cosa allegra e concessa” ironizza l’autore), la sterilità della scelta di riprodurre, di fronte ad un contesto storico così profondamente mutato, tanti piccoli cloni del PCI delle origini, l’illusione di un ritorno alla purezza rivoluzionaria, ottenuta attraverso un’organizzazione rigida, autoritaria e settaria, la fragile speranza di una rivoluzione dietro l’angolo, tramontata la quale, scomparvero, nella maggioranza dei casi, anche i suddetti partiti. Dietro il verticismo e l’intolleranza di “capi e capetti”, che il libro dipinge in poche azzeccate pennellate, c’era la riproposizione di un’idea autoritaria di “rivoluzione” che già, tragicamente, non solo attraverso l’esperienza dello stalinismo, aveva dato prova di sé. Una logica della presa del potere che, affondando le sue radici nella tradizione leninista, riproponeva in varie salse la dottrina della “dittatura del proletariato”, fissando come obiettivo primo quello di sostituirsi agli attuali detentori del potere, ai massimi vertici dell’apparato politico ed economico, ereditandone e gestendone, in nome del “proletariato”, le strutture senza intaccarne, o addirittura rafforzandone, la centralizzazione e il verticismo.
Vita e rivoluzione
Il tema ci riporta agli ultimi due punti, sopra accennati, ovvero a due modi diametralmente opposti di concepire la dimensione utopica e radicale, la prospettiva rivoluzionaria e la lotta al sistema: da un lato, la ricerca di un proprio individuale percorso di liberazione, di una riqualificazione delle esperienze e dei rapporti sociali su basi non gerarchiche, concepita come condizione indispensabile ad un vero processo rivoluzionario, dall’altro, la pretesa avanguardistica, l’opzione gerarchica, concorrenziale e dirigista, nonché la scelta sacrificale sul piano individuale, di quanti si orientarono verso una concezione guerrafondaia dello scontro di classe e verso la riproposizione di un partito comunista combattente; in primis, le Brigate Rosse. Due opzioni che si andarono scindendo e divaricando fino a dar luogo a mondi, socialmente ed ideologicamente, separati e in parte contrapposti ma che, in ultima istanza, finirono entrambe schiacciate e messe sotto scacco da pressioni interne ed esterne. In mezzo, ogni sorta e grado di possibile mediazione e mescolanza fra queste due tensioni. Nella seconda metà degli anni Settanta, specchio evidente di tali lacerazioni e contraddizioni, come il racconto ben ricostruisce, fu il percorso di Autonomia Operaia, organizzazione scissa tra una componente neo-leninista, incline ad una rigida, quanto mimetica, struttura di partito, ed un’ala più movimentista e libertaria.
“Molti sogni individuali di libertà e felicità diventano patrimonio collettivo”: così, nella prima parte del libro, si descrive l’esperienza che il protagonista andava vivendo, a metà degli anni settanta, nel giro di freaks, “interscambi” e libertari che aveva preso a frequentare. La “rivoluzione” vissuta come ricerca e costruzione di una dimensione sociale che non escluda, anzi promuova, la “felicità” del singolo, l’autoliberazione e l’espressione di ognuno. In questo concetto, si esprime forse la rivendicazione più utopica e radicale del movimento degli anni Sessanta-Settanta. Ad essa si opponevano, sul fronte interno, l’apparato rigidamente gerarchico e centralizzato dei partiti extraparlamentari, la dimensione sacrificale e moralistica nella quale essi avvolgevano i propri militanti, lo stalinismo in ultima analisi ancora imperante nelle idee e nei metodi. Sul fronte esterno, invece, la brutalizzazione del conflitto iniziata con la serie degli omicidi e delle stragi di Stato, e portata avanti da un blocco formato da apparati giudiziari e politici dello stato, servizi segreti italiani e stranieri, gruppi finanziari disposti ad investire nell’“anticomunismo”, terrorismo nero e mafie. Esso riuscì a inasprire lo scontro sociale e ad intorbidarne le acque con sistematiche infiltrazioni e provocazioni, spingendo, per contrasto ed emulazione, una parte del movimento verso quella militarizzazione della lotta che risulterà, in ultima analisi, parallela e convergente, nei risultati, con l’azione del PCI e dei sindacati confederali tesa ad isolare e depotenziare il movimento. Dal sentore precoce di questo andazzo, derivò la critica del passaggio alla lotta armata, quale si stava realizzando in Italia, che alcuni ambienti libertari e anarchici seppero già allora esprimere: “Il panorama clandestino è in espansione. Un nascere continuo di sigle che si accorpano, mutano si sciolgono, si interscambiano. Al momento, le aree più organizzate sono principalmente quella NAP/BR, ideologicamente blindata, gerarchica e di matrice ML ortodossa e quella di Prima Linea (…). Tra le formazioni minoritarie troviamo invece Azione Rivoluzionaria, organizzazione combattente autodefinitasi anarco-comunista. Nonostante il richiamo a radici comuni, a noi comunque la cosa non ci esalta per niente; sentiamo i compagni distanti da noi, sia per le loro scelte totalizzanti nelle strategie e nei metodi di lotta, che per la loro propensione conscia o inconscia a farsi specialisti della rivoluzione”. Alcune pagine più in là, siamo ormai al settembre 1980, si annoterà: “Azione Rivoluzionaria si scioglie. L’indicazione ai militanti è quella di confluire in Prima Linea per formare il fronte comunista combattente. Quello che si pensava si è verificato: (…) interessati solo al fine, sono rimasti di fatto condizionati dai mezzi utilizzati”.
Sfaldandosi, dal 1978 in poi, i movimenti, e venendo meno quella capacità di maturare esperienza soggettiva in quella collettiva, e viceversa, che era stata la loro forza, l’aspirazione alla felicità individuale venne interamente attratta nella sfera dei consumi: quello dell’eroina e di altre sostanze psicotrope, dei viaggi, della musica, della “cultura”, dell’alimentazione alternativa, delle nuove tecnologie, finché, dall’inizio degli anni Ottanta, ogni differenza tra questi presunti consumi alternativi e quelli già orientati dal mercato si spense. La fuga in avanti dei lottarmatisti, d’altro canto, sfumata l’illusione di una rivoluzione prossima, persa ogni capacità di relazionarsi ai movimenti, dette inizio alla tragica stagione del pentitismo in cui si dissolse, lasciando però penosi strascichi a tutt’oggi irrisolti.
L’abisso degli anni Ottanta
(…) 1979: “Sembra che ognuno inizi a fare i propri conti; il futuro non è più così radioso, le soluzioni collettive sono solo ricordi lontani”. L’autore offre, con il suo stile sintetico, uno spaccato sociologico dei mutamenti che gli ambienti giovanili stavano allora vivendo. La produttività, gettata fuori dalla porta, rientrava da comignoli e finestre, la contestazione si faceva riassorbire nel cosiddetto “consumo alternativo”: “I ritrovi, i locali, stanno spuntando come funghetti”, ormai “ci si intrattiene”. Gli anni Ottanta vengono annunciati in poche frasi amare e lapidarie che ne colgono a pieno il senso: “Ora c’è il business, la controcultura ridotta a spettacolo asettico, ordinato”. “La condivisione, le aspirazioni verso una vita degna di essere vissuta, la critica del reale. Tutto dissolto”. È il momento in cui, in Italia, incominciano a circolare quintali di eroina. Inondando il mercato, facendo calare i prezzi, l’eroina sostituirà per molti l’innocuo consumo di hashish e marijuana, producendo una quantità impressionante di tossicodipendenti, e di vittime della tossicodipendenza, e deteriorando i rapporti sociali: “La roba, solo la roba. (…) I freaks in linea di massima si sono trasformati in tossici; le relazioni tra le genti vanno sempre più a puttane”.
[Se gli Ottanta portarono queste ed altre sciagure], gli anni Settanta, pur con tutte le loro miopie ideologiche, furono una stagione di improvvisa e imprevista fioritura di (…) semi di libertà, un tempo di risveglio e disgelo pieno di insetti colorati che andavano ad impollinare angoli fino ad allora apparentemente aridi e inerti della società. Personalmente, reputo una fortuna l’esserne stato partecipe, e mi auguro di incrociarne almeno un’altra ancora.
Marco Celentano